Avrebbe compiuto, ora, i suoi cento anni, ma ha preferito andarsene a novantasei. Con la grazia, lo stile, l’eleganza, di sempre. Cini Boeri, con
l’abitudine, tutta milanese e lombarda, di darsi un nomignolo per nome, a posto del suo Maria Cristina, che pure non è male. Con questo nome e cognome da apostata, è diventata una icona. Cini Boeri. L’ho conosciuta e incontrata durante gli anni ottanta e novanta, quando il suo incanto era ad un massimo della sua espressione, capace di dare spessore alla labilità e rendere in grazia ogni strutturalità. Exitu, questo della sua formazione e della sua innata disposizione alla progettazione, alla endogamia di ogni forma, che deve la sua leggerezza, all’essere visibilità e tattilità, di un organismo, di una complessità officinale, capace a dare forma ad un contenuto e reggere il peso di una sua funzione di praxis. La sua è una attitudine elettiva, a mettere insieme la tecnicalità industriale, con la manualità artigianale, fatta di passi

accorti e decisi, di dare vita estetica alla pura oggettualità e qualità ad ogni singolarità. La natura è per lei, un riferimento non naturalistico, statico, bensì una dinamica di assorbimento, di tutta la temporalità possibile e immaginabile e quindi non solo fonte di mimesi e di riproduzione, ma anche luogo infinito, di continuo divenire.
Perché la natura non è oggettiva, ma soggettiva, interpretabile, come un’opera teatrale ( vedi sodalizio con Giorgio Strehler) come sperimentazione spaziale (sintonica con le ricerche di Lucio Fontana) e la sua attenzione per Ernesto Rogers e quindi con Peressutti, Banfi, Belgiojso. Quindi è cultura, il modo di agire su di lei, alchemicamente, assecondandola e facendone una alleata nel cammino dell’evoluzione “creatrice”. Per lei design e architettura sono solo specificità metriche di un unum, in una sintonia irripetibile che induce ritmo, possibilità di sintesi, che non è mai una definizione, ma punto di riferimento per

proseguire nella ricerca, nella sperimentazione, come aspetto formale e immaginifico della poeticità, che non è un residuo arcaico, antropologico, ma una flessione continua del grande schermo frantumato che ci sta di fronte. Fonte di attrazione, ma anche di repulsione, fascinazione della decorazione e della fabbricità
vulcanica della trasformazione, la visibilità è il luogo della socialità, in cui Cini Boeri proietta la sua passione contaminante; cito per tutti il suo divano Strips, suggerito dalla intepretazione ecologista di Javacheff Christo, avvolgitore protettivo del genio dei geni, Leonardo da Vinci, in una combattuta Milano, tra remore tradizionalistiche e decise orientazioni alla tradizione del nuovo. Così, Cini Boeri, sta con Gae Aulenti, con Zaha Hadid, in una visione d’anima, che oggi appare in tutta la sua casualità e necessità ( per dirla con Jacques Monod) e ci resta come traccia illuminante di una psicologia, diversa da quella maschile, in senso nomade e originalizzante, ma capace di concepire giardini di armonie.

KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO