Alfredo Romano, mio amico, da sempre, rappresenta la generazione più giovane, dell’arte che ha avuto (e continua ad avere) testimoni perenni, in Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Pier Paolo Calzolari, nella loro strutturalità, nuda, quanto colta e sapienziale, corrispondente ad un continuo farsi e disfarsi del linguaggio artistico, toccato dalla dialettica di eros e thanatos, non nella versione freudiana e junghiana, ma in quella della fenomenologia dell’accadere, che è innanzitutto commedia e tragedia, mischiate insieme, che intrecciate fanno groviglio, in cui coesistono, l’arcadico e il barocco. Mi ricordo il suo grande e labirintico studio, in un ex ospedale della storica e mitica Ortigia, dove di giorno splendeva la luce, ma appena veniva il tramonto, tra montagne di letti arrugginiti e cataste di lastre radiografiche, innumerevoli orinali e macchie di muffa, veniva addosso un senso di freddo e voglia di andare via, ma per fortuna sarebbe l’indomani risorto il sole; era prospiciente alle mura precarie del montecarlesco o sorrentino, Hotel des Etrangers, allora abbandonato (oggi riaperto) ma che ad ascoltar bene, faceva ancora risuonare parole e camminate, di mitici viaggiatori del gran tour, quelli che avevano seguito Goethe e Von Platen che poi si erano sciolti al termine della notte. Una sera ci trattenemmo un po’ di più in quell’ex ospedale, pieno di resti di dolore e di pietà e si fece scuro; come per incanto, ogni cosa, i vecchi materassi, le sedie rotte e gli armadi gonfi di archivi ingialliti, cominciarono a muoversi, ad animarsi, cercando il nostro spaurito conforto, come imprigionati fantasmi del luogo.
Naturalmente tutto accadeva nella mia e nella sua testa. Un’era fa. Io e lui abbiamo tante letture comuni, che vanno da Louis Ferdinand Celine a David Cooper e quindi una frequentazione metafisica, non interrotta dalla distanza materiale, di ormai molti anni, che non contano nulla, perché è quella mentale che conta ed è legame indissolubile. Ho rivisto tutto nel caleidoscopio di Atene, con Giorgio Persano e Ileana Tounta, di questa primavera ’24. Capitolo nuovo di antico poema. In questa sua esposizione, greca, sapienziale e architetturale, vengono mostrati gli oggetti, della sua lunga traversata nei luoghi segreti, meandriaci, della mente, dove si situano, i saperi, gli interrogativi, i fisici e i post fisici, dove si situano i riti, della primitiva factura e della successiva scriptura, che insieme hanno misturato, l’alchimia eterna della trasformazione onirica, dell’ordinario diurno, che è, insieme, visione e miraggio di incubo e succubo. Una ventata, ora infuocata, ora gelata, che insieme fanno un regno, il nostro regno, dove accade l’improbabile e nel culmine della festa, interviene il gesto di Medea, che ci ricorda la follia di Cronos e insieme divorano e dilaniano, spazio e tempo. Uno spazio e un tempo, che Alfredo Romano, attraversa in strade, di Siracusa solitaria, dove ancora si odono, parlate antiche, come in Rosario La Ciura di Ligheia, forse di Eschilo e di Platone, sicuramente di Epicarmo, di Mosco, di Archimede. E insieme fanno simposio.
KLESSIDRA | A CURA DI FRANCESCO GALLO MAZZEO